Ho appena finito di leggere “La vita accanto” di Mariapia Veladiano (Premio Calvino 2010).
L’incipit: “Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia.”
La protagonista narra in prima persona la sua storia di donna reclusa, anzitutto in casa (per la vergogna dei parenti di mostrare la bambina brutta, mascherata dal pretesto di proteggerla dagli sguardi e dalla brutalità del mondo), poi nell’isolamento dato dal “non-riconoscimento”, dall’indifferenza degli altri.
Scoprirà, grazie alle poche persone che sapranno “guardarla” e accoglierla facendole trovare la propria identità, che il “brutto” è fuori, nel mondo, e non è in lei.
E’ un bel libro, asciutto e commovente (senza volerlo essere): la cosa che mi ha colpito particolarmente è il percorso consapevolezza-perdono-resistenza (ed esistenza). Rebecca (la protagonista “brutta”) ha deluso, con la sua “anormalità estetica” il desiderio di “normalità” che la madre aveva, a causa dei suoi trascorsi generazionali: capirà che la madre, che non è riuscita ad accoglierla e proteggerla, ha fatto ciò che è riuscita a fare, è stata quello che è riuscita ad essere. Consapevolezza e perdono danno la capacità di resistere e la possibilità di cambiare, se è necessario.
Mi è capitato di lavorare con una ragazza con molto disagio nei confronti del proprio aspetto esteriore. Sua nonna bellissima aveva sempre mostrato poco interesse per la figlia (mamma della ragazza) giudicata “non all’altezza” che, a sua volta, aveva cresciuto la figlia con il mito della perfezione estetica, a cui lei aveva rinunciato per sfiducia nelle proprie possibilità. La ragazza ha dovuto passare attraverso consapevolezza-perdono-responsabilità del proprio cambiamento per diminuire le proprie ansie ed evitare la “catena di sant’antonio” generazionale. Per fortuna ce l’ha fatta ma non va sempre così.
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